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Il libro sacro che inventa la parola di Dio

Testata: La Repubblica
Data
: 18 ottobre 2010
Pagina: 58
Autore: Pietro Citati
Titolo: «Il libro sacro che inventa la parola di Dio. Il Corano che nessuno in Italia conosce.»

Gli italiani non leggono Il Corano. Le traduzioni italiane sono poche e cattive: i commenti non sono migliori. La traduzione di Ida Zilio-Grandi, che esce in questi giorni, è bellissima (Il Corano, a cura di Alberto Ventura, Mondadori, collezione Islamica, pagg. LXXII-912, euro 20,00): dal principio alla fine mantiene il tono giusto, quella semplicità sublime, con cui Maometto ha evocato la voce di Dio. Tutto il libro è eccellente: l’introduzione di Alberto Ventura, di squisita intelligenza, e i commenti di Mohammad Ali Amir-Moezzi, Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi sono ampli e scrupolosi. Tra i commentatori, due appartengono alla tradizione islamica, sebbene vivano ed insegnino a Parigi; e questo conferisce al loro testo una qualità di maggiore vicinanza al libro sacro, senza offendere mai il rispetto per la verità scientifica. A partire da ora, dunque, gli italiani potranno leggere Il Corano, abbandonandosi a quell’onda solenne e tumultuosa. Credo che le sorprese saranno moltissime.

Il Corano è un singolarissimo libro sacro. Discorre di sé, si interpreta, si analizza, si descrive, dubita di sé, si esalta, con una eloquenza che non viene mai meno. Parla delle proprie origini. Il Corano non è soltanto il volume che oggi teniamo nelle mani, e nemmeno le fibre e le foglie d’albero sulle quali Maometto e i suoi amici incisero la rivelazione, ma è innanzi tutto il proprio archetipo celeste. Prima che il tempo avesse inizio, Dio incise le proprie parole, in caratteri di luce, su una materia incorruttibile.

Questa tavola è custodita: cioè sta al riparo di ogni minaccia di alterazione; non muterà né si deformerà mai, immutabile come i veri libri. Mentre Il Corano stava lassù, fermissimo e invisibile, oltre il settimo cielo, cioè prossimo a Dio, cominciava la sua lenta ed incessante discesa, che da principio comprese la Torà e i Vangeli. La Torà e i Vangeli non sono Il Corano, ma lo contengono in potenza, e come in enigma. Il Corano comprende la Torà e i Vangeli, perché è il libro del ricordo: richiama innumerevoli luoghi della Bibbia ed esalta i profeti ebraici: ciò che là è racconto diventa qui predicazione divina; e viene interpretato, chiarito, confermato. «Il seme produce un germoglio che poi si rafforza, si irrobustisce e si alza saldo sul gambo».

Poi Il Corano si sposta verso il futuro e la fine. Comprende l’ultima ora, che verrà all’improvviso come nei Vangeli, e anzi è già avvenuta, nelle pagine di Maometto, dove echeggia il boato della tromba celeste, il cielo si spacca, rosso come cuoio lucidato, le stelle si offuscano, i monti sono rimossi, i mari ribollono, e le donne gravide abortiscono. Appaiono «i giardini alle cui ombre scorrono i fiumi», dove i fedeli resteranno in eterno: il Paradiso, che è il leitmotiv musicale del grande testo. Così Il Corano è sia il primo libro inciso nella luce prima dei tempi, sia l’ultimo libro, che noi leggiamo mentre crediamo di abitare nel presente. Niente, a rigore, potrebbe essere scritto dopo Il Corano: o infiniti commenti, chiose, analisi e interpretazioni, contenuti dentro Il Corano come il gheriglio dentro la noce. Questo archetipo celeste, questa "tavola custodita", Dio la fece discendere su Maometto: sebbene fosse un uomo, nient’altro che un uomo, capace di mancanze e di errori. Come disse Aisha, l’ultima delle sue mogli, «la natura di Maometto era intera Il Corano». Dio gli rivelò tutto il libro nel corso di un’unica notte, detta "la notte del destino". Poi, via via che gli anni passavano, ripeté la sua rivelazione nel tempo, sotto la forma di versetti comunicati - soffio dopo soffio, tocco dopo tocco - durante ventitré anni.

Se usiamo le parole dei moderni, Maometto compì un’impresa prodigiosa, alla quale si rifiutarono sempre gli ebrei e i cristiani. I Vangeli non sono la trascrizione diretta delle parole di Gesù: sono immensamente più discreti, perché si accontentano di raccogliere le tradizioni, che avevano trascritto e ricordato le sue parole. Maometto, invece, ha inventato la parola di Dio, senza alcun timore di compiere un atto empio. Ha trasformato la sua voce umana in una voce dettata dal cielo. Così ora sentiamo, attraverso di lui, la parola di Dio, letta, proclamata, predicata ad alta voce. La sentiamo mentre si rivolge in primo luogo a Maometto, il suo "servo", il suo intermediario, e poi a tutti gli uomini, fedeli o miscredenti. La sentiamo vicinissima, come risuonasse, accanto a noi, sulla terra, nel tempo presente. Ne sentiamo il suono, il ritmo, il timbro, il calore, il movimento. Questo è il primo, straordinario effetto del Corano: sopratutto su lettori non musulmani, o che non hanno sensibilità religiosa.

Il Corano non obbedisce mai ad una struttura logica: non segna un percorso continuo e rettilineo. Esso è vagabondo, errabondo, labirintico. Procede ad onde, a balzi: avanza, si ritrae, si sposta, si contraddice, ritorna, arretra, accumula; questa struttura così discontinua è il segno, forse, del suo carattere intenzionalmente sacro. Dio, dice stupendamente, Maometto, «scaglia la verità»: non vuole farla conoscere o spiegarla, ma la scaglia come si può scagliare un fulmine, o la erutta e la fa esplodere come un vulcano. Tutto vi è frattura, intermittenza, abisso, formula apocalittica. Oppure Dio segue il metodo opposto: si ripete e torna a ripetersi. Quante volte ci parla dei fiumi del Paradiso. Quante volte ci dice: «Egli è colui che mi ha creato e mi guida. Egli è colui che mi nutre e mi disseta e quando mi ammalo mi guarisce. Egli è colui che mi fa morire e poi mi risuscita».

Qualche volta, Il Corano è chiarissimo e - dice Maometto - porta alla luce ciò che stava celato nella Bibbia, nei Vangeli e nelle tradizioni apocrife. È facile e semplice. Qualche volta, al contrario, è oscuro e misterioso: Maometto parla dei «rotoli di pergamena che fate vedere e in gran parte tenete nascosti». In ogni caso, Il Corano rifiuta di spiegarsi. Quando Maometto veniva interrogato sul suo significato, rispondeva: «Dio ha detto qui ciò che ha voluto dire». Con qualche eccezione, il tono è sempre lo stesso: anche dove parla di questioni giuridiche o di eventi politici, Il Corano raggiunge un tono sublime che lo Pseudo-Longino avrebbe ammirato: «la sublime lingua di verità». Questa lingua ha un effetto fisico-ipnotico fortissimo: tanto che, come dice un passo, la pelle di chi lo ascolta «si raggrinza e poi si raddolcisce».

Il Corano che noi leggiamo e sopratutto ascoltiamo, non è il vero Corano: quello che, alle origini del mondo, è stato scritto sulla tavola custodita. La parola di Dio, che è divenuta "linguaggio e suoni articolati", è stata avvolta da un tenuissimo e oscurissimo velo. Per scoprire "lo spirito e il significato profondo", che anima quei suoni e quei segni, dobbiamo risalire al mondo celeste, verso la tavola custodita. Questa operazione è insieme necessaria e impossibile: può compierla solo Dio, perché Lui solo sa cogliere nella sua essenza la "parola puramente interiore" che costituisce il cuore del libro. Così ogni lettura, che facciamo del Corano, anche quest’ultima che compiamo aiutati da una buonissima traduzione e da un buonissimo commentario, è un fallimento. Il Corano resta incomprensibile all’occhio e all’orecchio umani.

Questo libro incomprensibile ruota attorno a un Dio egualmente incomprensibile. Dio è unico: "è colui che basta a sé stesso"; non ha eguali, né secondi, né compagni, né figli, né associati, né ministri. Non ha alcun bisogno degli uomini, delle loro opere, delle loro preghiere, e del mondo di animali e piante che ha foggiato. «Se non li avessi creati - Egli disse - non ne avrei alcun danno: ora che li ho creati, se non faranno quello che ho prescritto loro, e se non eseguono i miei ordini, non me ne viene alcun detrimento e, se obbediscono ai miei ordini, non me ne viene alcuna utilità». «Se volessi - Egli insiste - vi farei sparire, e vi sostituirei con chi voglio». Ciò che è tipico del mondo islamico è appunto questa ebbrezza, questa vertigine di unità, dalle quali sono nate meravigliose pagine teologiche e mistiche. Col suo concetto di Trinità alla quale si è aggiunta la divinità di Maria, il Cristianesimo è infinitamente più complicato. Anche il Divino e l’Uno, per noi, sono molteplici.

Siccome è unico, Dio è onnipresente, onnisciente, onnipossente. Comprende in sé tutte le opposizioni e le antitesi: il giorno e la notte, il morto e il vivo, il bene e il male. Quindi sa tutto per natura e per esperienza. «Egli conosce quel che è sulla terra e quel che è nel mare, non cade foglia senza che egli non voglia, e non c’è granello nelle tenebre della terra, nulla di umido o di secco che non si è registrato in un libro». Non c’è segreto che egli non conosca: quelli delle coscienze, del passato, dell’avvenire e dell’invisibile. Nulla, mai, gli è nascosto. Sebbene il suo linguaggio preferisca l’immenso, ha uno sguardo microscopico e molecolare: non gli sfugge il peso di una formica, né quello di un granello di polvere, o di un granello di senape, o di una tarma, o la pellicina del nocciolo di un dattero, perché nel minimo si cela il mistero. In qualsiasi momento del tempo, Egli ci spia: non è mai assente; non si distrae dall’osservare; e in qualunque situazione ci troviamo, Egli assiste a ciò che facciamo, diciamo e pensiamo. Se è dappertutto, vive anche nei corpi: a tratti è visibilmente antropomorfo; e noi abbiamo violenti rapporti fisici con lui, perché dobbiamo afferrarci tutti alle sue funi. Dunque Dio abita anche il male: ciò che fa Iblis, l’angelo della Tenebra, esce dalle sue mani.

Quando foggia la terra, la fantasia di Dio è immensamente creativa e feconda. È la Provvidenza. Rende stabili le terre, dispone i fiumi per irrigarle, dà loro cime montagnose, divide i mari con una barriera, manda i venti a portare le voci, fa discendere la pioggia per gli uomini, gli armenti, il frumento, l’ulivo, le palme, le viti, i melograni. Tutto è fresco, fertile e luminoso, come nei primi capitoli della Genesi. Se vuole creare una cosa, Dio pronuncia lo stesso Fiat della Bibbia. Oltre alla terra, crea altri mondi e altre città, che stanno ai piedi della smeraldina montagna di Qaf. Crea quelle cose trasparenti e stranissime che sono le ombre. E, se nella Bibbia, la creazione prende una fine, qui è continua: Dio può prolungarla e rinnovarla e moltiplicarla, perché - per Lui - nulla è difficile e definitivo.
Tutto ciò che noi vediamo è una immagine di Dio. La sterminata regione dei corpi, gli alberi, gli uomini, le luci, le ombre sono sembianze del suo unico volto. Dio è il chiostro dove si rifugia il monaco cristiano, il tempio dove vengono venerati gli idoli, il prato dove brucano le gazzelle, la Ka’ba dove si prostra il pellegrino, le Tavole dove è stata scritta la legge mosaica, Il Corano ispirato a Maometto. Ma il Dio islamico non si è incarnato come Gesù. Egli è soltanto entrato nelle forme create, come l’immagine entra e si riflette dentro lo specchio. Chi contempla le cose, non contempla la luce divina: la scorge deformata e trasformata, come la luce che penetra in un filtro di vetro colorato viene tinta dal giallo e dal rosso. Il nostro mondo è l’ombra rispetto alla persona, la figura specchiata rispetto all’immagine, il frutto rispetto all’albero. Così il credente, che si slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra la delusione: giacché il mondo è un velo che ci nasconde il suo volto. Non sappiamo se ce lo nasconde perché è un velo troppo spesso: o perché la manifestazione di Dio è così intensa, la rivelazione così luminosa da accecare i nostri occhi. Sebbene Dio si manifesti in tutte le cose, Egli è nascosto ed assente e noi seguiamo invano la sua rivelazione.

Il Corano comincia: «Nel nome di Dio, il Clemente». Clemente non è un aggettivo, un attributo del nome di Dio, ma un suo sinonimo. Dio e Clemente significano esattamente la stessa cosa. Così, se sfogliamo Il Corano, lo scorgiamo donare, senza badare a meriti umani (che non esistono), o a una qualsivoglia giustizia, ma obbedendo soltanto alla propria volontà e al proprio capriccio. Come sappiamo, Egli è l’Unico, che contiene in sé tutte le qualità; e quindi non dobbiamo meravigliarci se, sia pure in modo indiretto, egli compia il Male. Induce i miscredenti a farlo: "Dio ha sigillato loro il cuore e l’udito, e sui loro occhi c’è un velo", che li rende ciechi. Se qualcuno possiede "una malattia del cuore", Dio non la cura e non la mitiga, ma la accresce. Qualche volta travia, induce in errore, insidia, tende tranelli, trama inganni: come Zeus, il grande ingannatore della religione greca.

Travolto da questa forza divina troppo grande, l’uomo si copre di peccati, di cui è innocente. Eppure, egli ne è colpevole. Dio vuole appunto questo: un mondo tessuto di peccati e di peccatori, che gli permetta l’atto divino del Perdono. Ibrahim, un asceta, girava attorno alla Ka’ba: presso la porta del santuario si fermò e disse: «Mio Signore, preservami dal peccato, affinché io non mi ribelli al tuo desiderio». Una voce che proveniva dal cuore della Ka’ba gli sussurrò: «O Ibrahim, mi chiedi di preservarti dal peccato. Tutti i miei servitori mi chiedono questo. Ma, se ti preservassi dal peccato, voi sareste privati della mia misericordia. Se tutti gli uomini fossero innocenti, a chi accorderei la mia grazia?».