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Calcutta. Benvenuti a Blade Runner city.

Testata: La Repubblica
Data
: 24 novembre 2010
Pagina: 48
Autore: Franco Marcoaldi
Titolo: «Calcutta. Benvenuti a Blade Runner city.»

CALCUTTA - Il luogo da cui cominciare la visita è in qualche modo obbligato: il nome di Calcutta, oggi Kolkata, viene da Kalikutir, la casa della dea Kali. E dunque è da lì, dal santuario di Kalighat, che bisogna partire. Mi raccomando, non fatevi illusioni di ordine estetico: il tempio, degli inizi Ottocento, non è niente di che. In compenso la ressa, a ogni ora del giorno e della notte, è insopportabile. E ancora più insopportabili sono i tanti "sacerdoti", si fa per dire, che cercano di scucirvi mille rupie solo per assistere al sacrificio ininterrotto di caprette ignare. Eppure l'impressionante statua di Kali, con occhi immensi e lingua insanguinata, vale la visita. Perché nessuna divinità come lei, la Madre, incarna con altrettanta evidenza la congiunzione degli opposti: brutalità e tenerezza, vita e morte, creazione e assassinio.

Volendo, si potrebbe anche dire che l'intera Kolkata si irradia a partire da quel luogo folle e pietoso, proponendosi al visitatore come epitome urbana del delirio e della pietà, della grazia e dell'orrore di cui l'essere umano è capace. Per questo ha ragione Giorgio Manganelli quando nel suo folgorante Esperimento con l'India afferma: «Se non avete visto Calcutta voi non avete visto, non già l'India, ma il mondo. È una città impossibile, inesistente, una allegoria, un labirinto, un incubo, una rivelazione». Detta altrimenti: è la realtà più vicina alla fantasia cinematografica di Blade Runner. Passato, presente e futuro, sono categorie mentali che qui non esistono più. Non esistono più il bello e il brutto, né la distinzione netta tra città e natura. Tutto si confonde con tutto. Tutto convive con tutto. Un tempo capitale del Raj britannico, Kolkata è stata a lungo il più grande centro coloniale d'Oriente. E nessun'altra città indiana in teoria può vantare edifici coloniali altrettanto fascinosi, come quelli che si affacciano su BBD Dagh (Dalhouise Square). In teoria, dicevo, perché tutto cade a pezzi, oppure viene risucchiato da una paradossale giungla urbana di rara potenza, che trae misteriosamente la linfa necessaria per crescere da un inquinamento che non ha pari al mondo.

Inquinamento alimentato dalle ultime industrie fatiscenti che strozzano ancora il centro cittadino e da un traffico che non conosce sosta e non conosce regole, trascinando da un punto all'altro di questo scriteriato agglomerato urbano masse sterminate di persone che sembrano vagare senza meta e senza costrutto. Il che, comunque, non impedisce a Kolkata di offrire surreali angoli di quiete e di verde, come accade al Maidan, uno dei più grandi parchi cittadini del pianeta, dove potrete vedere indifferentemente pastori con le greggi, bande di ragazzini che giocano a cricket e impiegati che fanno jogging. Se poi l'effetto straniante del Maidan non vi è ancora bastato, spostatevi ai suoi bordi per visitare gli squisiti giardini che circondano il ridicolo "panettone" del Victoria Memorial, a ricordo di una regina di cui poco devono sapere le migliaia di disgraziatissime donne costrette con la forza a vendere il proprio corpo in un quartiere a luci rossi grande come una media città della provincia italiana.

Quando si nomina Kolkata si pensa sempre ai miserabili, ai lebbrosi, ai mendicanti, ai "mostri" che ne marchiano a fuoco la vita quotidiana. Ma vi posso assicurare che un giro nei luoghi della prostituzione non è meno infernale. Eppure anche qui troverete all'opera il volto doppio della Madre Kali, che condanna e redime, giudica e salva: da anni infatti un'associazione di donne coraggiose e volitive, guidate dall'intrepida Ruchira Gupta, lotta (e con successo) per offrire a quelle prostitute la possibilità di una seconda chance. Meno disumana. Del resto, là dove la realtà rovina in proporzioni immani, è nel dettaglio che si riscopre il miracolo dell'esistenza. E a Kolkata ne avrete prova ogni momento. Nel gesto gratuito di uno sconosciuto che vi accompagna a un certo indirizzo per pura cortesia. Nella straordinaria cura con cui l'artigiano di Kumartuli Ghat costruisce la sua statua di argilla, legno e paglia per la festa religiosa. Nell'allegria di una vecchia che pulisce la tomba di un ignoto ufficiale inglese dell'Ottocento nel meraviglioso cimitero degli inglesi.

Manganelli ha ragione: Kolkata è curiosamente animata da «una vitalità ambigua, che accoglie in sé decadenza e nascita». Perché per quanto strano possa sembrare, «questa città di edifici fatiscenti, di miseri, di morti, di mostri, è bizzarramente allegra: non direi in modo sinistro, ma in modo infantile; e l'allegria infantile ha le stigmate dei penosi passati da cui è districata». Ripeto. Non c'è bisogno di andare al cinema. Non c'è bisogno di rivedere Blade Runner. Quel film, il film della perduta gente, si gira ogni giorno dell'anno nell'inconcepibile, urticante e straordinaria Kolkata.