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Guardo il mondo attraverso i libri

Testata: La Repubblica
Data: 2 ottobre 2008
Pagina: 46
Autore: Pietro Citati
Titolo: «Guardo il mondo attraverso i libri»
 
Pietro Citati incarna la critica letteraria. Per dirla in modo brutale: c'è dentro fino al collo. È difficile immaginarlo in modo diverso. Ogni suo libro - e l'ultimo, La malattia dell'infinito edito da Mondadori (in libreria da martedì prossimo, pagg. 464, euro 22), non fa eccezione - è la dimostrazione di una fedeltà che non conosce incertezze, dubbi, ripensamenti. Da quello che scrive, dal modo in cui incrocia i suoi scrittori, si percepisce che ama i suoi oggetti letterari. è il guardiano che li sorveglia, la madre che li cresce, l'amico che li assiste. Con essi è tenero e indulgente. Sospetto però che sotto questa immagine, lievemente edulcorata, si nasconda qualcosa di furioso. Non so bene cosa. Ma è come se Citati avesse crudelmente misconosciuto una parte di sé. Avesse deciso di vivere attraverso l'altro e quest'altro è il libro, è la letteratura che lui pratica con infinita conoscenza, sacrificio e devozione.

Il lettore può farsene un'idea precisa frugando in questa recente raccolta di saggi: lo stile è apparentemente uniforme, levigato, morbido. Ma sotto quel mondo di compatta levità si scorge il tumulto della vita che gli scrittori hanno immaginato, registrato, condensato e che Citati ci restituisce con infinita passione. Vado a trovarlo nella sua casa romana. Mi precede nel salotto. Ci accomodiamo sul divano. Indossa un leggero cachemire. Una cravatta dal nodo grosso gli strangola il colletto della camicia. Gli sono accanto e vedo un profilo che dimostra meno anni di quelli che ha (è nato nel 1930).

È disteso, flautato, assente. È un'assenza piacevole e cortese. Rispettosa delle circostanze. Siede con formale compostezza, la mani sulle ginocchia, la voce cantilenante e lo sguardo dritto verso un grande quadro che ci fronteggia. La giornata è mite: «La luce oggi è bellissima», commenta. È tornato da poco dal suo mare toscano, dove passa quasi l'intera estate: «Mi piace il posto delle mie vacanze, ha di buono che la spiaggia è sempre vuota, non c'è nessuno neppure a ferragosto. È un lager per ricchi. Anche se non sono ricco. E poi i ricchi a volte sono particolarmente sciocchi», dice con un sorriso appena accennato.

Sul tavolo c'è una copia del suo nuovo libro, in copertina un Kandinskij bellissimo. Chiede se mi piace. Rispondo che dà l'idea di un infinito ingarbugliato, tormentato, contrastato. Del resto mi pare corrisponda a quella idea di malattia che il titolo riporta. Gli domando se è così. «L'infinito è una meravigliosa malattia che fonda la modernità. Il primo ad esserne contagiato fu Rousseau per il quale l'universo era troppo stretto. Voleva andare oltre e ancora oltre, al di là di ogni limite. E neppure allora la malattia si placava. Poi c'è Leopardi. Con lui accade esattamente l'opposto. Per avere rapporti con l'infinito deve prima chiudersi nel carcere della sua casa di Recanati. In una poesia celebre, questo carcere è la siepe che gli proibisce di guardare l'infinito. Solo così può costruirlo nella sua mente: "Io nel pensier mi fingo"». Davanti all'infinito, Leopardi si smarrirebbe. «Ne ha terrore. E sa che non possiamo conoscere l'infinito, al più possiamo interpretare l'indefinito: il gioco delle ombre, i raggi della luna, lo sguardo. Rousseau e Leopardi sono le due vie attraverso cui nasce il senso dell'infinito in letteratura. Poi c'è Pessoa che rappresenta l'estremo della malattia.

L'Io che in Rousseau si espande e in Leopardi domina la lirica, in Pessoa esplode in una molteplicità di Io. Direi che in tutta la letteratura del Novecento c'è una traccia di infinito». Ci sono anche l'ombra, la caduta, il male. «Non credo che la letteratura degli altri secoli sia meno attraversata dall'ombra, dal dolore e dalla notte». Due scrittori per lei emblematici sono Dostoevskij e Kafka. «Sanno raccontare la notte senza alcun limite, senza toglierle la qualità di tenebra. Sono scrittori che amano la notte pura». Anche Musil aspirava a una notte senza veli. «Musil è la coscienza filosofica che fa rivivere la notte in letteratura. Mentre per Kafka scrivere è calarsi nella notte. Chiudersi in una cantina, diventare animale, perdere la propria razionalità umana e attraverso questa metamorfosi percepire tutto il mondo». Parlando di Kafka lei sostiene che un artista non ha l'obbligo di credere. «Negli anni tra il 1912 e il 1915 Kafka elabora alcune idee su Dio e sono idee assolutamente in contrasto tra loro. Non crede in ciò che sta progettando, Dostoevskij al contrario pensava che senza il Cristo il mondo si sarebbe perduto. Ma il Novecento per lo più sposerà la posizione di Kafka».

La mobilità della letteratura del Novecento, la sua capacità di essere ubiqua riflette più in generale lo spaesamento e il disagio dell'uomo novecentesco? «Il disorientamento c'entra solo in parte. In realtà la letteratura del Novecento difende la polarità. Vuole stare in un luogo e nel suo contrario. Musil ci aiuta a capire questo bisogno della letteratura di essere contemporaneamente dentro le polarità. Era uno di quegli artisti che non possedevano una identità, che non era né questo né quello. Egli trasmette questa condizione a Ulrich, protagonista de L'uomo senza qualità». Cosa è questa mancanza di qualità? «Significa vivere invece che nell'Io nello spirito di relazioni che percorre tutto il mondo. Sono le infinite mediazioni che Musil crea, a volte talmente complicate che egli rischia di perdercisi dentro». Non è una letteratura rassicurante quella di cui ci parla. «Non so se rassicuri. Ciò di cui sono certo è che il compito della letteratura è inglobare quello che per statuto non appartiene alla letteratura. E questo c'è in tutti gli autori di cui parlo, a cominciare da Conrad». C'è un confine oltre il quale la letteratura non va? «Il confine della letteratura è il carcere che lei stessa si crea. È ciò che fa Leopardi. Ma al tempo stesso la letteratura deve saper evadere da quelle mura. Il confine - si veda la trama de Il castello di Kafka - è una tipica nozione polare: deve essere rispettato e trasgredito». È una squisita nevrosi. «Non c'è scrittore degno di questo nome che non sia nevrotico, che non adoperi la nevrosi come elemento architettonico.

Virginia Woolf trasforma la sua oscurità maniaco depressiva in trionfo letterario. Lo stesso si può dire di Gadda». Cosa è stato per lei Gadda? «Un padre da accudire e da adorare». Lo dice con un senso di rimpianto. «È lo stesso che provo per la scomparsa di Calvino e Manganelli che consideravo i miei fratelli maggiori». Com'erano? «Calvino era molto arrendevole. Accettava presenze diverse dalla sua, mai una luce negativa su nessuna cosa o persona. In Manganelli c'era la furia e a volte anche l'odio. Sono state figure con cui parlavo con molta effusione. Più che con Gadda verso il quale avevo una venerazione immensa. Ma non c'era quel rapporto fraterno che vivevo con Manganelli. Ricordo le cene, sempre nello stesso ristorante, allo stesso tavolo, nella stessa posizione». Un altro con cui si vedeva spesso al ristorante era Federico Fellini. «Era un rituale: appuntamento sotto casa mia alle otto. Arrivava un po' in anticipo con la macchina della produzione. Io mi affacciavo alla finestra e lo vedevo passeggiare. Lo raggiungevo e poi si andava al ristorante. Parlavamo di tutto, in modo burlesco e fantastico. Ma era un uomo tutt'altro che felice». Cosa intende dire? «Gli ultimi anni della sua vita furono durissimi, era deluso, amareggiato dall'insuccesso dei suoi film. Film peraltro bellissimi. Ma il pubblico gli aveva voltato le spalle».

Qual è il suo rapporto con il cinema? Glielo chiedo perché lei ha anche scritto su Dreyer e Chaplin. «Non è un rapporto importante. Generalmente vado a vedere un film se mi dicono che è bello o divertente. Ma se devo scrivere su un film, allora devo rivederlo con la cassetta. Fermare continuamente l'immagine e prendere appunti. Ho bisogno di trasformare un film in un libro. Forse è un vizio ereditato dalla critica letteraria». Lei filtra tutto attraverso il libro, anche quando scrive di attualità c'è sempre la mediazione letteraria e libresca. Perché? «Sono vecchio e leggo libri da settant'anni. Ma non è così esclusivo il rapporto con il libro. Amo la realtà non filtrata, mi piace molto osservare. Avrei perfino una vocazione a raccontare la realtà direttamente ma non posso». Perché non può? «Avrei gli occhi, ma non il racconto. Non posso raccontare una cosa direttamente, costruire un romanzo come farebbe un narratore. Ho bisogno di adoperare il racconto che è già stato raccontato una volta. Ho immaginazione per gli oggetti, non per le storie». Anche lei, come Leopardi, ha costruito un palazzo letterario, un carcere, nel quale vive? «Con la differenza che le pietre di questo palazzo non sono le mie. Credo che di questa situazione fossi consapevole sin da piccolo». I suoi primi anni li ha trascorsi a Torino. «È vero, anche se sono nato casualmente a Firenze. A Torino giunsi a due anni e ci rimasi fino ai 17 e poi andai alla Normale di Pisa». A Torino ha studiato con i Padri gesuiti che lei definisce "purtroppo insignificanti". «Non c'era traccia di religione nel loro insegnamento, neppure sotto la forma dell'oppressione. Come pure non c'era traccia della loro leggendaria cultura. Non ho imparato nulla con loro. Per me Torino si lega ad altre cose. È la mia città mentale. Quell'insieme di matematica e di follia, tipica della città e della letteratura piemontese, mi corrisponde». Non ha mai pensato di tornarci a vivere? «Non potrei. Vi sono morti mio padre, mia madre, mia sorella, lì vicino è morto mio fratello che era più giovane di me. Non lo sopporterei. Per me Torino è solo un luogo della memoria». Parlando dei suoi amici scomparsi lei dice di trovare intollerabile la loro morte. È una parola che esclude la rassegnazione. «Trovo insopportabile che non ci siano più. Non è dolore ciò che provo, ma un'atroce mancanza che nasce dal sapere che non potrò più parlare con loro, che alcuni momenti della vita non si ripeteranno più». Se la mancanza non produce né dolore né nostalgia, a cosa dà vita? «A un enorme vuoto. Si tratta di una cancellazione. Certo produce dolore. Ma più importante del dolore è il vuoto che crea. Quella stanza del sottoscala del ristorante Chianti, vicino Porta Pia, dove Manganelli e io abbiamo cenato centinaia di volte, è una mancanza irrimediabile. Quella cosa non c'è più. Non è passato soltanto. Perché il passato può essere circondato da un'aura di affetto e di benevolenza. Ma lì non c'è affetto. C'è soprattutto assenza. La cuoca che preparava a Calvino nella nostra casa toscana i bighelloni, una pasta fritta che lui adorava, è un momento cancellato». Però lo può raccontare. Come del resto fa ricordando gli ultimi giorni di Gadda, con lui a letto mentre lei gli legge un capitolo dei Promessi Sposi. «Narrare è l'ultima difesa contro il tempo. Gli lessi il capitolo in cui Renzo e Lucia cercano di farsi sposare da Don Abbondio. E Gadda che era moribondo rideva. Si imporporò. Sussultava con il suo pancione sotto il lenzuolo con un'aria complice e felice. Lì, in quell'istante, si poteva capire che la letteratura è soprattutto passione e vita». C'è una frase che lei scrive in relazione alla scoperta di Gadda che lei fece da giovane: "Qualche volta rimpiango il fervore cieco dei giovani scrittori del 1957... Questi giovani sono diventati vecchi". Cosa rimpiange? «I giovani di allora erano Arbasino, Parise, Testori, io e altri che non ricordo. Cosa rimpiango? La dissennatezza e l'entusiasmo. Oggi Gadda è nelle mani dei professori che fanno cose utilissime. Ma per noi Gadda era la letteratura. Forse è ingiusto. Ma così ci si accosta ad essa. Senza adorazione per lo scrittore e senza la consapevolezza che tutto il mondo è in quello scrittore lì, la letteratura non esisterebbe». Ma l'adorazione non può essere un impedimento alla comprensione? «La venerazione non porta alla verità, che è qualcosa che andrà cercata successivamente. Ma senza venerazione non si dà passione e senza passione non si fa letteratura». A proposito di passione e di gioventù. Lei amava da giovane recensire e stroncare i libri che leggeva. «Oggi aborro la stroncatura. Quello che non mi piace lo butto via. La stroncatura si fa da giovani. Si cresce negando gli altri. L'ultima stroncatura risale a poco meno di vent'anni fa, fu a Il pendolo di Foucault di Umberto Eco». A distanza di così tanto tempo le si può chiedere perché ha scritto quella recensione? «Me la chiese Scalfari. Lessi il libro e non mi piacque». Si disse che lei lo aveva stroncato per invidia, per il successo mondiale del romanzo precedente. «Si dice sempre così. La verità è che il libro non mi era piaciuto. Come non mi era piaciuto Il nome della rosa. Non credo che Eco sia uno scrittore. È un uomo coltissimo e intelligentissimo, anche se di una intelligenza che non amo. Ma il romanzo non è il suo mestiere». Le qualità di un narratore non hanno niente a che vedere con la cultura? «Kafka sapeva pochissime cose. Gli bastava drizzare le orecchie e aprire gli occhi. Questa era la sua forza. Non la mistica ebraica che peraltro sospetto conoscesse solo indirettamente. Viaggiava con i sensi».

A proposito di viaggi, è una forma che lei ha poco raccontato. Perché? «Il solo viaggio che ho raccontato lo feci in Islanda. Poi ci sono alcune pagine di un viaggio in Iran, ma nascoste, trasformate. Feci il viaggio insieme a Calvino. Mi arrabbiavo con lui perché pareva che non vedesse niente. Io sapevo tutto dell'Iran e tentavo di parlargliene. E lui sembrava fregarsene. Poi ad anni di distanza scrisse degli articoli bellissimi su quel viaggio. La verità e che guardava e ascoltava tutto. Aveva quell'occhio annoiato che trafiggeva tutto ciò che lo circondava. È un dono che hanno solo gli scrittori veri». E lei? «Io non posso affrontare un puro viaggio in un paese che non conosco. Non lo so fare. Ho bisogno di conoscere prima tante cose di quel luogo. Devo mescolare storia, letteratura, visioni, persone e allora quel viaggio comincia ad appassionarmi». All'albero della vita preferisce l'albero della conoscenza? «Ho bisogno di metterli insieme. La vita da sola, malgrado Kafka, non l'ho mai trovata così appetitosa».